La via Müller, una storica salita sulla nord del Sorapis
Una STORIA VERA di Francesco del Franco – Accadde il 20 e 21 agosto 1994
“Cortina, la Regina delle Dolomiti!” Questo luogo comune, largamente utilizzato nella propaganda pubblicitaria non è infondato: Cortina sorge in posizione del tutto eccezionale nello straordinario ambiente dolomitico. Il sole la fa da padrone splendendo immancabilmente durante l’estate ma anche nei mesi invernali non è troppo avaro.
Questa sua assidua presenza gratifica soprattutto le signore in vacanza che possono esibire eleganti abiti con generosi decollté quando si rifocillano in ristoranti raffinati o in comodi rifugi, dove si rilassano e si abbronzano di fronte allo spettacolare panorama della Conca ampezzana.
Ma c’è anche chi paga un prezzo per questa felicità climatica e siamo noi alpinisti, alpinisti classici beninteso, perché questa felicità è resa possibile dal fatto che le montagne sono lontane da Cortina. Tranne il Pomagagnon, la montagna di Cortina, lontane sono la Croda da Lago e le Tofane, molto lontane il Cristallo e la Croda Rossa, lontanissimi l’Antelao e il Sorapis.
Ma la seduzione esercitata da queste splendide montagne per noi alpinisti è tale da indurci di buon grado ad affrontare, oltre la dura fatica di conquistarle, qualche disagio supplementare per raggiungerle.In questo progetto coinvolsi i miei giovani amici Paolo Bellodis, Mario Dibona (Moro), Enrico Maioni e Luciano Zardini (Lares).
Nel corso di una memorabile riunione alla Birreria Centrale ove, aiutati da un imprecisato numero di birre, dopo accanite discussioni nelle quali frequentemente ricorreva l’esclamazione «Oh perbacco», convinsi Paolo a scalare la Dallamano – Ghirardini al Cristallo, Moro alla poco frequentata variante di Bibi e Mescolin (Beniamino Franceschi) all’Antelao, Lares alla traversata della Croda Rossa da Carbonin alla Malga Ra Stua e… restava la punta Sorapis che volevo salire per una via, suggerita da Bibi, considerata mitica nei primi decenni del ‘900.
Dopo lunga e assidua frequentazione delle vie di roccia classiche delle Tofane e della Croda da Lago, in compagnia di due miti dell’alpinismo ampezzano, Bibi Ghedina e Franz Dallago nell’estate del 1994 decisi di scalare le montagne “lontane”.
Questa via si presentava particolarmente complessa non per il grado di difficoltà ma per la sua lunghezza e per la qualità della roccia e del ghiaccio. Enrico, da vero gentiluomo, aveva dato la precedenza di scelta ai suoi amici, sicché alla fine era toccato a lui il boccone più duro da addentare.
Infatti la via Müller-Dimai-Dibona non era stata mai percorsa né da Enrico, né dai suoi amici ma solo da Guide storiche come Bibi, Mescolin e Boni, che di questa scalata per altro avevano solo vaghi ricordi.
Enrico in quegli anni era uno dei più forti arrampicatori di Cortina ma preferiva l’arrampicata atletica piuttosto che le lunghe vie di montagna. Perciò ho particolarmente apprezzato la decisione di accompagnarmi su una via che di atletico non aveva nulla, ma difficile da trovare.
L’attacco della via è sul ghiacciaio Centrale del Sorapiss a quota 2.500 m quindi è obbligatorio pernottare al Rifugio Vandelli, un vero rifugio alpinistico a quota 1.900 m punto di partenza per numerose scalate e punto di sosta per il giro del Sorapis, escursione vivamente consigliabile.
L’accesso al rifugio avviene per comodo sentiero che si prende da Passo Tre Croci e qui la sera del 20 agosto ci accompagnò in auto Pia, mia buona allieva in arrampicata, soprattutto sulle rocce capresi e affettuosa compagna. Al passo Pia ci lasciò per poi, il giorno seguente riprenderci dall’altro versante della montagna, al Rifugio Scotter.
Con i gestori del rifugio ci intrattenemmo dopo cena per bere una birra e fare due chiacchiere.
Enrico è tra i miei amici ampezzani di gran lunga il bevitore più morigerato tanto è che malgrado le mie insistenze e le astuzie, suggerite dalla mia lunga esperienza per prolungare le bevute, non superammo le 10 birre, non a testa, che ancora sarebbe stato un traguardo onorevole, ma in due!
Consapevole dell’impegno che ci attendeva l’indomani non opposi resistenza quando Enrico propose di ritirarci osservando scrupolosamente l’orario del rifugio.
Saggia decisione, l’indomani alle 6.30 già arrancavamo sulla morena verso l’attacco 600m sopra di noi che raggiungemmo alle 8.30; un attimo di sosta anche per sciogliere la corda e mettere i ramponi e subito ripartiamo.
Il Sorapis è una montagna immensa e la via Müller penetra proprio nelle sue viscere, tanto che, nel percorrerla non si vede panorama e neanche il cielo, se non quello spicchio proprio sopra di noi.
La via non è tecnicamente difficile perciò mi meraviglia vedere Enrico affrontare con disinvoltura una paretina di ghiaccio piuttosto dritta, montare su un minuscolo pulpito, prepararsi a superare un piccolo strapiombo, già con la mano sinistra appigliata su una piccola sporgenza di roccia, quando con un cupo tonfo il pulpito frana, Enrico rimane sospeso nel vuoto, lo zaino sulle spalle e senza per altro tradire sul volto la minima emozione, salvo una certa espressione di meraviglia.
Istintivamente recupero un po’ di corda, manovra inutile perché Enrico non aveva messo chiodi. Non so con quale artificio, Enrico riesce a scendere i pochi metri che ci separano e, guardando l’espressione preoccupata del mio volto, mi fa flemmatico: «Ma Francesco anche se fossi caduto erano pochi metri… al più mi sarei rotto un piede». Figurarsi: soli sul ghiacciaio del Sorapis, lontano dal rifugio, senza facili possibilità di chiamare soccorso, con un piede rotto…
Una ristata liberatoria, una stretta di mano e proseguiamo. Giunti quasi a metà salita osserviamo uno strano oggetto che pendola sulla parete di ghiaccio: sembra una specie di corda con strani rigonfiamenti.
Quando siamo vicini constatiamo trattasi di una corda di metallo lungo la quale sono disposte delle palle di ferro, su cui si erano formate abbondanti incrostazioni di ghiaccio che così, osservate dal basso, apparivano come “strani rigonfiamenti”.
Penso sia un’attrezzatura militare come se ne vedono moltissime nelle Dolomiti, triste testimonianza della I guerra mondiale, la così detta “Grande Guerra”, una delle peggiori barbarie commesse dall’uomo, ma non è così: è invece, mi dice Enrico, un’attrezzatura predisposta dai primi salitori per agevolare la salita di quel tratto di ghiaccio un po’ più ripido, e a tal fine nella corda sono state fissate delle grandi biglie di ferro da usare come appigli e appoggi.
Naturalmente non ci fidiamo e proseguiamo la scalata senza neanche toccare questa corda, lunga circa una decina di metri. Giunti all’ estremità, infissa nel ghiacciaio, per curiosità verifichiamo la tenuta dell’ancoraggio e costatiamo meravigliati che è ancora solidissimo, sebbene siano trascorsi cento e più anni!
Proseguiamo inoltrandoci per la grande parete interrotta da alcuni terrazzini. Per chi apprezza le scalate classiche, la via Müller merita a pieno la grande considerazione che un tempo riscuoteva, posso testimoniarlo in tutta coscienza avendo compiuto in Dolomiti molte scalate classiche. Come dicevo quello che maggiormente colpisce di questa via è la grandiosità dell’ambiente in cui si snoda. Infatti a percorrere il dislivello, dall’attacco alla vetta, di 700 m (dal Rifugio 1.300 m) impieghiamo ben sette ore (nove dal Rifugio) ma ne è valsa la pena per l’interessante esperienza alpinistica che questa scalata ci fa vivere.
Giunti in cima, superfluo sottolineare la bellezza del panorama, festeggiamo con una calorosa stretta di mano e una birra gelata che aveva miracolosamente trovato posto nell’enorme zaino di Enrico. Poi senza indugio iniziamo la discesa per la Normale verso il Rifugio Scotter anche questa lunga, con un dislivello di 1.600 m, che ci impegna per quattro ore.
Alle 19 siamo al rifugio accolti dalla proprietaria, e della nostra bella Pia che ci attendeva sin dal mattino. Facciamo onore al pranzo sontuoso preparato per l’occasione e brindiamo con un numero adeguato di birre questa volta anche Enrico non si attiene alla sua abituale sobrietà nel bere e partecipa senza remore alle numerose libagioni.
Infine ci congediamo dagli amici che ci hanno così squisitamente ospitato e prendiamo la via del ritorno; vado per caricare nell’auto lo zaino di Enrico ma nel sollevarlo quasi perdo l’equilibrio e avverto un lancinante dolore alla schiena: lo zaino è pesante, molto pesante anzi pesantissimo! Incuriosito chiedo ancora una birra (ogni scusa è buona) e vincendo la ritrosia di Enrico apro lo zaino per vedere cosa mai contenesse.
C’era di tutto e di più ancora: un paio di ramponi di riserva, un lungo spezzone di corda, chiodi da roccia con relativo martello, chiodi da ghiaccio sia a vite che a percussione, scatola per il pronto soccorso e infondo addirittura un pesante “corpo morto”! Scolando l’ultimo sorso di birra, rielaboro con calma la paurosa scena di Enrico, aggrappato con una sola mano a quel minuscolo appiglio, i piedi nel vuoto e questo mostruoso zaino sulle spalle… Bravo Enrico!
Napoli, gennaio 2014
Francesco del Franco
CAI – SAT GISM
Nota
Con grande dispiacere mi è giunta la notizia (fine marzo 2015) della scomparsa del caro Francesco, sicuramente un uomo fuori dal comune e ben più di un “cliente”.
Profondo conoscitore della storia dell’alpinismo, Francesco aveva una visione della vita tutta sua, non consona ai canoni dell’odierna società, di certo una voce fuori dal coro.
“È stato uno degli ultimi grandi signori napoletani, nei modi e nel ragionamento“, scrive di Francesco del Franco Mirella Armiero sul Corriere del Mezzogiorno.
Di lui mi piace ricordare l’entusiasmo e la smisurata passione per la montagna e l’alpinismo, un alpinismo vecchio stile, tant’è che qui a Cortina lo chiamavamo bonariamente Grohmann, per il suo modo di vestire un po’ all’antica durante le innumerevoli scalate.
Caro Francesco, non dimenticherò mai i tuoi “Oh perbacco!” e i nostri brindisi alla napoletana: “A issa, a issa a issa, a cala, cala cala…”
In questa triste occasione, la giornalista Mirella Armiero, responsabile pagine cultura del Corriere del Mezzogiorno, ha scritto un articolo che ben descrive la figura di Francesco del Franco, Alpinista, Bibliofilo e Filosofo. Ringrazio la gentile Mirella per avermi permesso di pubblicare il suo scritto.
Quanto segue è stato tratto dal “Corriere del Mezzogiorno” – Napoli – del 27 marzo 2015.
Addio a Francesco del Franco
Fondò le edizioni Bibliopolis
Bibliofilo e alpinista, amava Capri. Nel catalogo le opere di Croce.
di Mirella Armiero
NAPOLI – Editore e alpinista, bibliofilo umanista e fisico di formazione. Era tutto questo Francesco del Franco, anima della sigla Bibliopolis che ha tra le sue opere più importanti l’edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce. Del Franco è scomparso ieri mattina a Napoli dopo una lunga malattia.
Figlio di Costantino del Franco, raffinato bibliofilo a sua volta e amico di Benedetto Croce, Francesco del Franco si era laureato in Fisica Teorica a Napoli. Seguendo questa sua prima inclinazione scientifica nel 1976 aveva fondato la casa editrice Bibliopolis, che fin dalla nascita annoverava collane di scienza, fisica teorica e logica matematica, ma anche di filosofia e antichistica. In particolare, nella collana «Saggi Bibliopolis», una sorta di contenitore di opere di varia saggistica, compaiono i lavori di studiosi insigni quali Pugliese Carratelli, Bergel, Piovani, Gabrieli, Gigante, Kristeller, Masini, Bodei, Bobbio, Garzya, Russo, Martinetti, Antoni.
L’istituzione della casa editrice era stata fortemente influenzata dalla fondazione, un anno prima, dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Del Franco era legato da antica amicizia all’avvocato Gerardo Marotta, con il quale aveva condiviso esperienze culturali. Animati da analoghi ideali, Marotta e Del Franco hanno cercato negli anni di trovare a Napoli lo spazio per un’editoria di qualità, sulla scia dell’esempio di Riccardo Ricciardi e in nome di un rinnovato umanesimo. Ma del Franco non era solo un fine intellettuale. Trascinatore nelle discussioni, di carattere gioviale, l’editore praticava l’alpinismo e spesso si dedicava alle scalate delle pareti rocciose di Capri o di Cortina.
Aveva iniziato la sua attività sportiva tardi, intorno ai quarant’anni, ma si era talmente appassionato da diventare addirittura capocordata.
Del Franco, inoltre, non disdegnava di scrivere interventi specialistici sui giornali del Cai. Di queste sue leggendarie arrampicate raccontava con fervore e un pizzico di autoironia durante le serate che si tenevano nel salotto della sua accogliente casa di via Arcoleo. Allora poteva anche capitare che ti invitasse a svegliarti alle 5 del mattino del giorno successivo, per affrontare una parete rocciosa in cordata con lui, perfino se non ci avevi mai provato prima. Qualcuno accettava, del resto il salotto era pieno di giovani. Del Franco amava circondarsene, alcuni di quelli che frequentavano le sue serate erano autori del suo catalogo, o amici della figlia Emilia, che sta proseguendo il suo lavoro in casa editrice.
Uomo di grande cultura, esperto di cose crociane, dalle idee chiare, è stato uno degli ultimi grandi signori napoletani, nei modi e nel ragionamento. A casa sua si potevano incontrare politici come Spadolini, intellettuali come Sossio Giametta o Gianfranco Fiaccadori, e tanti napoletani interessati alla cultura.