Ossessione montagna. La via Dimai – Eotvos in Tofana
Una STORIA VERA di Alberto Giovannini – Accadde il 15 agosto 2009
Come può un uomo adulto e mediamente saggio farsi prendere dall’ossessione di una montagna? Io l’ho sperimentato e voglio raccontarlo.
La Tofana di Rozes è una montagna che conosco bene. Vado a Cortina fin da bambino, e le ho girato attorno innumerevoli volte. E’ una montagna che non può non colpire il passante: la si vede per prima entrando nella valle di Cortina, torreggiante alla sinistra del più famoso massiccio della valle (le 3 Tofane).
Guidando verso il Passo Falzarego, rimane sulla destra, e la sua massa imponente sovrasta il guidatore che guarda in su. Infatti, se si è abbastanza in alto, la Rozes si vede da qualunque punto delle Dolomiti: è una delle più alte tra quelle splendide montagne.
E’ così affascinante per la sua dimensione, ma anche per il fatto che è staccata dalle altre:
la Rozes si erge sola.
Io non sono un montanaro. Amo la natura e le montagne, amo le escursioni e le scalate.
Ma non sono un montanaro perché non ho la sicurezza, il senso dell’orientamento e la capacità di valutare e affrontare piccole e grosse difficoltà che un vero montanaro possiede, forse perché ho cominciato a fare escursioni serie e arrampicate solo relativamente di recente, intorno ai quarant’anni.
Questo non mi ha impedito di godere appieno le montagne, seguendo le guide alpine, con un vantaggio in più: “andare fuori con le guide” (uso qui uno splendido modo di dire che ho sentito da una signora ampezzana molto anziana e molto intelligente) combina esperienze diverse: lo sforzo fisico per raggiungere l’obiettivo, la contemplazione della natura e le conversazioni con le guide. Le guide alpine che conosco posseggono saggezza ed esperienza, che abbinano ad astute tecniche psicologiche e ad un’affascinante cultura delle montagne.
Sono gli angeli custodi che conducono lungo la strada giusta e incoraggiano a raggiungere la vetta. Si fa presto a sentirsi amici delle guide: è l’amicizia che lega l’insegnante e lo studente, il protettore e il protetto, le persone che coltivano la stessa passione, pur se a diversi livelli.
Nonostante conosca la Rozes fin da piccolo, non ho mai pensato di scalarla, se non di recente. Mi ricordo molto bene quando mi fu piantata l’idea in testa. Ero in vetta su una delle 5 Torri, un gruppo di piccole cime che è la palestra per gli scalatori di Cortina. Avevo appena concluso la “Quarta Bassa”, una via di roccia tra le più facili, tipicamente la prima vera via (multipli tiri di corda) dei principianti.
Mi stavo guardando attorno con soddisfazione e una qualche apprensione (è caratteristica delle cime delle montagne di essere circondate da superfici molto inclinate, spesso precipitosamente inclinate, in tutte le direzioni) quando la mia guida, Davide Alberti,puntò il dito verso il versante opposto della valle, verso la gigantesca massa della Rozes, e mi disse: “Uno come te dovrebbe scalare la Rozes lungo la Dimai – Eotvos, una via classica aperta all’inizio del secolo scorso.” indicandomi il percorso lungo la parete sud della montagna, il lato più imponente.
Mi sentii molto lusingato dal fatto che Davide, che aveva appena avuto modo di valutare le mie limitate abilità, pensasse che sarei stato capace di scalare una montagna come quella: la via che mi stava indicando è più o meno equivalente a 20 Quarte Basse!
Negli anni successivi l’interesse divenne pian piano un’ossessione: a chiunque se ne intendesse ponevo domande su quella scalata. Mi ricordo una guida che mi descrisse l’esperienza come veramente esilarante: “E’ una montagna gigantesca; ti trovi per aria con 600 metri sotto i piedi molto in fretta; ti sembra di volare, di toccare il cielo con un dito!” Il mio problema era: quando sarei stato in grado di farla? La maggior parte delle arrampicate che ho fatto a Cortina sono stato accompagnato o da Paolo Da Pozzo o da Enrico Maioni, due abili ed esperte guide che mi hanno portato in posti che non avrei mai creduto di poter raggiungere, e mi hanno insegnato ad affrontare la paura, la stanchezza e tutte le emozioni che rendono la montagna un’esperienza incomparabile.
Ovviamente avevo importunato a lungo questi due poveretti affinchè mi portassero sulla via Dimai – Eotvos. E loro avevano sempre mostrato un’educata riluttanza: “Devi essere molto in forma”, dicevano. “È molto lunga”, “È una vera ascesa di montagna”, “Un tempo stabile è un fattore fondamentale, perché l’ascesa è così lunga”.
E così, ogni estate finivo la stagione in forma migliore, ma non abbastanza in forma da provare la Dimai – Eötvös. In questo modo la mia ossessione cresceva: la montagna stava diventando il simbolo dei miei limiti fisici; allo stesso tempo rimaneva un gigantesco, splendido monumento.
Finché l’anno scorso scoprii un modo per risolvere l’impasse.
Paolo ed Enrico mi raccontarono che avevano portato insieme un cliente su una difficile ascesa sulla Cima Grande delle 3 Cime di Lavaredo (mentre scrivo mi sto accorgendo che tutte le montagne famose di Cortina hanno un numero nel loro nome!): due guide per un cliente perché in questo modo, data la difficoltà dell’ascesa, erano in grado di garantire una maggior sicurezza al loro cliente.
Allora, proposi, perché non mi potevano portare assieme sulla Dimai – Eötvös?
Questa mia proposta li trovò molto più concilianti. Dal mio punto di vista, il fatto che loro si sentissero più sicuri non poteva che far sentire me più tranquillo. E, non da ultimo, salire con le due guide a cui sono più affezionato mi sembrava un bel modo per celebrare una scalata così bella.
E così quest’anno, cominciando a scalare con Paolo, gli dissi che ero ancora interessato alla Rozes, ma che doveva essere solo lui, che mi conosce così bene, a decidere se fossi in grado di farla e quando. Lui rispose: “Andiamo dopodomani.” E qui iniziò l’emozione. Il piano era di partire alle 5 di mattina da casa per cominciare a scalare poco dopo le 6. Nonostante per me fosse stato difficile dormire la notte prima, l’umore della mattina era molto buono: era una bella giornata e tutti e tre, Paolo Enrico ed io, sapevamo che ci saremmo divertiti.
Lasciammo la macchina al Rifugio Angelo Dibona 2083 metri, e ci dirigemmo all’attacco, circa 300 metri più in alto. Giunti alla base eravamo davanti ad un’impressionante parete che si ergeva circa 900 metri sopra di noi, fino alla cima a 3225 metri. La via prende il nome da due baronesse ungheresi: Ilona e Rolanda Eötvös. Nel 1901 furono accompagnate nell’impresa da Antonio Dimai, di Cortina, insieme a Giovanni Siorpaes e Angelo Verzi. L’arrampicata segue una via che si sviluppa per circa 1000 metri, e richiede 21 tiri di corda. Quindi mi aspettavano 1000 metri di arrampicata e scalata, forse 3000 passi. Ciascuno di quei 3000 passi andava attentamente calcolato: in primo luogo perché gli appigli o appoggi sbagliati causano cadute, ma anche perchè nelle Dolomiti le pareti delle montagne, quando si scalano vie articolate ed interrotte da cenge e terrazzi, sono spesso piene di sassi malfermi, grandi e piccoli: gli scalatori devono fare attenzione per se stessi e per le altre persone che sono vicine alla parete, inclusi naturalmente i compagni di ascesa.
Partimmo facilmente e velocemente. Era bello salire in tre: quando si sale in due ci si vede poco, solo al momento dell’arrivo alla sosta. In tre, invece, avevo sempre qualcuno con cui parlare, e questo mi aiutò molto a scaricare la tensione. Mentre salivamo, qualche nube avvolse la montagna, dandole un’aria più misteriosa, ma anche limitando le vedute eccezionali che quella salita riserva. La parete è veramente gigantesca, e le nubi la rendevano un po’ spettrale. Ma questa sensazione svanì con il raggiungimento della parte alta dell’arrampicata.
Forse il passaggio più famoso è un lungo traverso (circa 50 metri) molto esposto su un muro diritto che cade 600 metri sotto i piedi. Il traverso non era molto difficile, ma molto eccitante per la sua posizione, anche se le nuvole nascondevano in parte la veduta. Dopo il traverso, gli ultimi tiri sembrarono molto più difficili, forse perché la fatica cominciava a farsi sentire veramente!
Una peculiarità della Dimai-Eötvös è che la fine della scalata non è la fine dell’ascesa. Rimangono circa 200 metri di salita libera lungo lo spigolo della montagna. L’ultimo breve segmento, per raggiungere il sentiero che permette la discesa dalla cima, richiede l’attraversamento della parte alta di un ghiaione molto ripido e instabile che precipita fino alla base della montagna, dal lato della valle Travenanzes. Forse quello è stato il punto in cui mi sono sentito più in difficoltà: non ci sono tecniche standard per stare in piedi, solo sangue freddo e un buon senso dell’equilibrio. Dopo aver raggiunto il sentiero, ci incamminammo verso il ritorno.
A metà strada, l’obbligatoria sosta al Rifugio Giussani. Lì fummo accolti dal gestore, lui stesso un esperto montanaro, che elegantemente ci chiese: “Da dove viene questo gruppo con due delle migliori guide di Cortina?”. Alla nostra risposta sembrò dare un segno di apprezzamento: la Dimai-Eötvös è una scalata seria! Nel rifugio mi accorsi quanto ero teso: era difficile mandare giù una semplice zuppa di verdure (anche se poi feci fuori due birre ghiacciate senza apparenti difficoltà). Continuammo la discesa fino al punto di partenza, per arrivare a casa al tramonto.
La soddisfazione per aver conquistato la mia ossessione era molto forte, ma forse non quanto mi sarei aspettato. Dopotutto, la mia ossessione era un sentimento in gran parte irrazionale, che la prova concreta della scalata necessariamente ha ridimensionato. In ogni caso, credo che questa esperienza mi abbia reso un po’ più saggio, anche se temo che, diventando più anziano, splendide esperienze come la Rozes inevitabilmente possano migliorare il mio carattere solo marginalmente. La mia gratitudine va tutta a Paolo Da Pozzo ed Enrico Maioni.
Di certo, la via Dimai – Eotvos sulla Tofana di Rozes è una salita incredible, che vi regalerà un sacco di indimenticabili emozioni.
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