L’inverno appena trascorso rimarrà per certo nella memoria di tutti noi: il blackout prima, e poi tanta, tantissima neve, che ha purtroppo danneggiato strade, abitazioni, tetti e manufatti, ma non solo…
Ho infatti recentemente appreso che anche la Croce di vetta del Pomagagnon, o meglio della Costa del Bartoldo, ha dovuto soccombere all’inclemenza di un inverno tanto ostile.
Sin dall’antichità la costruzione di monumenti con significato religioso sui rilievi montuosi è una pratica diffusa in parecchie culture. Curiosando su Wikipedia leggo che le croci presenti sulla cima del Mont Aiguille, costruite nel 1492, sono uno dei primi esempi con datazione certa di costruzione di una croce sulla sommità di una montagna di non facile accesso. Numerose croci di vetta furono posizionate in seguito su molte montagne delle regione cattoliche delle Alpi, in particolare tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo.
Oggigiorno qualcuno discute e polemizza sulla presenza delle Croci di vetta, ma non è di questo che voglio parlare.
Voglio riproporvi l’articolo scritto da Ernesto Majoni e pubblicato nel 1999 sulla rivista “Le Dolomiti Bellunesi”, della quale Ernesto è l’attuale Direttore editoriale e redattore.
Nel suo scritto, ricco di notizie storico-alpinistiche, l’autore ci racconta la storia della Croce del Pomagagnon, del perché, come e da chi sia stata eretta.
Quando Ernesto scrisse il suo articolo, ancora non sapeva che l’anno successivo, nel 2000, la vecchia Croce sarebbe caduta, spazzata via dal vento, e successivamente sostituita da quella nuova che, ahimè, ha subito quest’anno lo stesso destino.
Anche se, come ho detto, non tutti condividono l’idea di posizionare in cima ai monti le croci di vetta, a mio avviso la Croce del Pomagagnon dovrebbe nuovamente sorgere sulla Costa del Bartoldo non fosse altro che per rendere omaggio a coloro che dedicarono tempo e sudore alla sua realizzazione.
Ma per capirlo meglio, bisogna leggerne la storia…
La croce del Pomagagnon
Mezzo secolo di onorato servizio
Ernesto Majoni
NON SEMPRE GLI STORIOGRAFI DEL L’ALPINISMO TROVANO I SOGGETTI PER LE PROPRIE INDAGINI IN MONTAGNE MAESTOSE, VIE IMPEGNATIVE, ALPINISTI FAMOSI E ANCORA VIVI NELLA MEMORIA. SPESSO, per coloro che amano questi studi (e chi scrive, modestamente, si annovera tra essi) è piacevole e remunerativo analizzare cime minori, salite relegate nel ricordo di pochi, figure di appassionati alpinisti che non hanno lasciato segni sulle pareti, ma hanno perlustrato e valorizzato montagne con l’impegno di una vita.
La Costa del Bartoldo (Gruppo del Pomagagnòn, Dolomiti Ampezzane) è una cima che sicuramente si adatta bene a tale genere di storiografia. Questo contributo parla di essa, quindi di una vetta ritenuta oggi quasi una “cenerentola”, solcata da tante vie dimenticate, amata da alpinisti la cui notorietà, salvo qualche eccezione, non è uscita di molto dall’ambito locale.
Oggetto di queste note non saranno però pareti, spigoli e scalate, ma una croce di vetta, un simbolo di fede che incornicia numerose cime, caratterizzandole simpaticamente e ponendole talvolta anche al centro di sterili polemiche (vedi il caso della Tofana di Rozes di qualche anno fa).
Denominata anticamente in alcuni testi (“Dolomitenfuhrer” di von Glanvell, e poi dal De Falkner): “Teston”, “Gran Pomagagnòn” e “Croda di Bertoldo”, per quindici metri soltanto la Costa non tocca la massima altezza nel gruppo, appannaggio invece della vicina Croda di Pomagagnòn (m 2450).
Con l’antistante Testa del Bartoldo, assai caratteristica se vista da Cortma per la somiglianza ad un volto umano, è una delle montagne più note e rilevanti della dorsale del Pomagagnòn , da sempre classico sfondo della conca d’Ampezzo.
Essa segna il limite dell’ampia e solare bastionata centrale del gruppo, formata da quattro sommità ben individuate, e oppone agli appicchi meridionali una bancata rocciosa a nord, inclinata e abbordabile con relativa facilità.
Nel Bollettino del CAI per il 1901, il nobile fiorentino Orazio De Falker, ospite d’Ampezzo per una fortunata campagna alpinistica due anni prima, così fantasticava sulla nascita del nome della Costa: “Visse realmente in sul principio del secolo nella frazione di Chiaves un nominato Bertoldo, forse gran cacciatore; certo, a quel che ne dice la facile tradizione, uomo originale, di gran forza e ciarliero, specie di Rodomonte alpino che ha tramandato il suo nome fra gli Ampezzani per le compiute stranezze e serve oggigiorno come appellativo per designare ogni carattere eccentrico ed anche ogni cosa curiosa e buffonesca. Ecco quanto mi è riuscito sapere intorno a questo curioso individuo; ma mi è stato impossibile conoscere per quale motivo la parte centrale del Pomagagnòn abbia ricevuto il nome di Croda di Bertoldo. Forse che per quelle roccie stesse il grosso e strambo alpigiano soleva cacciare più sovente che altrove il camoscio e il capriolo?”
“La punta più alta salita dal Phillimore non ha nome e biene chiamata con quello generico di Pomagagnòn. Essa apparisce, a chi l’ammira da Cortina, alla destra del Teston di Bertoldo, di cui è un poco più bassa, onde proporrei di chiamarla Costa di Bertoldo, tanto per darle un nome facile e locale”.
Non è dunque escluso che la Costa, così battezzata in epoca piuttosto recente, fosse già stata salita ab antiquo per i lastroni a nord, dove sono sempre numerosi i camosci, da cacciatori o topografi. Essa però, come le cime vicine, assunse fama alpinistica solo nella seconda fase dell’alpinismo ampezzano, e più precisamente dal 22 agosto 1899.
Quel giorno infatti l’affiatata coppia inglese John Swinnerton Phillimore e Arthur Guy Sanders Raynor, che da tempo scorrazzava nelle Dolomiti mietendo ghiotte primizie in ogni dove, con la guida Antonio Dimai “Déo” (1866 -1948) attaccò e vinse la parete sud, che emerge maestosa dal sottostante bosco detto “i Brujàde”.
Dalla cima (salita in 7 ore da Cortina) il trio scese poi per lo stesso versante, sicuramente già studiato in precedenza da Dimai, inaugurando la più alta delle cenge che solcano in obliquo la quinta rocciosa e vi modellano cinque striature ascendenti verso destra, uniche nelle Dolomiti. croce del pomagagnon
La Quinta cengia, seguita per anni in salita e in discesa dagli scalatori, fu anche in parte attrezzata nella zona centrale, per agevolare il transito. Oggi, a seguito di ripetuti franamenti, l’itinerario – che potrebbe avere ancora un certo valore – non è più agibile con serenità, e l’idea di curarne il laborioso ripristino resta inascoltata.
La via Phillimore – 650 m di dislivello, 20 lunghezze valutate di 3° grado – per la sua favorevole posizione (la parete è lambita dal sole per buona parte dell’anno, e spesso vi si arrampica comodamente anche d’inverno), della sua prossimità a Cortina e della possibilità, un tempo molto sfruttata, di seguire le salite col binocolo da fondovalle, nell’epoca d’oro dell’alpinismo fu frequentata da molte cordate, che di essa apprezzavano – e spesso temevano – il “Passo Phillimore”.
Ritenuto da molti che l’hanno salita l’unica attrattiva della via, il “Passo” consiste in una lunghezza di corda di 36 metri, esposta e in parte strapiombante, valutata oggi sino al 5° grado inferiore. Già nei primi anni, in ogni modo, una guida poco ardita aveva trovato il modo di aggirare le uniche difficoltà, per facili paretine!
Con l’andar del tempo la via Phillimore patì un abbandono graduale a favore di altre salite anche su cime vicine, più varie, divertenti e su roccia migliore. Di essa però non vi é alpinista dell’epoca classica che non abbia voluto sperimentare la salita, e non ne abbia riportato impressioni perlomeno entusiaste.
Valga per tu tte la testimonianza di De Falkner, che ne fece la prima ripetizione assoluta il 21 settembre 1899 con una certa Miss Lampert e le guide Antonio Constantini “Tòne Mostàcia” (1861-1947) e Anelo Gaspari Moròto (1865-1911): “… quest’arrampicata è di nuova maniera, ma è pure la più emozionante e la più bella che si possa compiere nei dintorni di Cortina …”.
Nel secolo trascorso, sulla Costa sono state salite molte altre vie, d’impegno diverso: Viktor Wolf von Glanvell, Karl Günther von Saar e Karl Domenigg, il “Trio della Scarpa Grossa”, salirono in vetta già il giorno dopo gli inglesi per la Quarta cengia, anch essa divenuta impercorribile per frane sin dagli anni Trenta. croce del pomagagnon
Federico Terschak, ampezzano d’adozione (1890 -1977), con Valerio Giacobbi e G. Pizzini superò il 17.10.1926 lo spigolo SE salendo da Forzèla Zeŝtelìs, per una via rimasta senza relazione.
Il bolzanino Erwin Merlet (1886-1939) e Bepi Degregorio, accademico trentino trapiantato a Cortina (1889-1978), raggiunsero il 21.7.1927 la Phillimore percorrendo tutto lo spigolo dal punto più basso, con difficoltà di 5° grado.
Piero Dallamano e Renato Ghirardini, nel corso di una fruttuosa stagione alpinistica sulle Dolomiti, a Ferragosto del 1930 salirono in cima alla Costa da E, per una via di media difficoltà.
I fratelli Ignazio (1911-1942) e Fausto (1913-1961) Dibona “Pilàto”, figli di Angelo ed entrambi guide, il 21.9.1937 salirono con Hermione Blandy la loro Diretta, di 5° grado superiore, ancora abbastanza ripetuta.
Il 24.9.1941 i padovani Meggiorin, Mazzetto e Ruffato percorsero un esile cengia sopra la Terza, denominata “Terza bis”, e per essa uscirono sulla via Phillimore poco sopra il “Passo”.
Negli stessi anni la Terza Cengia, ripulita e attrezzata nei pochi punti scabrosi, divenne una classica “passeggiata di croda”, ancor oggi meta di numerosi escursionisti, assai apprezzata per l’ambiente in cui si svolge e i panorami che offre. Essa consente di accedere direttamente alla seconda metà della via Phillimore, di cui fu sempre più trascurata la parte bassa, più facile e meno divertente del resto.
Gli Scoiattoli Albino Alverà “Boni” (guida dal 1945, oggi ancora attivo) e Luigi Menardi “Iji”, quarant’anni in due, aprirono il 20.8.1944 la “Diretta di Boni”, un bel 5° a sinistra della classica Phillimore.
Dopo trent’anni , le guide Franz Dallago “Nàza” e Paolo Michielli “Strobel” il 23.3.1973 ripresero parte della via Terschak e compagni sullo spigolo est, aprendo un nuovo itinerario molto elegante.
Le guide Andrea Menardi “Diornista” e Modesto Alverà “Pazìfico” il 6.1.1976 hanno tracciato un’altra via da S, utilizzando solo 4 chiodi su 650 metri di parete.
Alfredo Pozza e Mauro Valmassoi, che di recente hanno scoperto diverse nuove possibilità alpinistiche nel gruppo, il 9.7.1997 infine hanno toccato il 7° grado inferiore sull’itinerario dedicato all’industriale scomparso Elio Toscani. 12 ore di salita, 16 tiri di corda e roccia perlopiù ottima sono le caratteristiche di questa via.
Oggi pare che sulla vasta parete lo spazio per vie nuove ed originali sia sensibilmente diminuito, ma non è ancora detta l’ultima parola. Forse qualcuno, presto o tardi, troverà il modo di individuare altre linee, aggiungendo ancora un capitolo alla storia, ormai quasi secolare, della Costa!

Veniamo ora al tema centrale dell’articolo, la croce di vetta. Da poco meno di mezzo secolo sull’esile cresta sommitale del monte, a 2435 metri d’altezza, un’alta croce (di cui s’indovina la massiccia struttura, oggi in verità un po’ gravata dal peso degli anni) accoglie i rari rocciatori saliti lassù per le vie da S, e gli escursionisti – pochi anch’essi, e perlopiù locali – avventuratisi in vetta lungo i solidi lastroni settentrionali, rivolti verso la Val Padeòn, sulle tracce di von Glanvell, che il 31 luglio 1900 compì con i suoi compagni la prima traversata della Costa a scopo alpinistico.
La via degli austriaci, percorsa soltanto in discesa, risale il diedro inclinato che divide la Costa dalla Testa, e termina su una forcella di cresta. Valutata di 1° grado, fu ritenuta dal “Berti” utile solo per il ritorno dalle scalate, sottovalutandone così l’interesse alpinistico, che invece sussiste, per l’esplorazione della selvaggia catena.
Fino ad oggi ho raggiunto la croce del Pomagagnòn quasi dieci volte. Solo da pochi anni però, grazie a una lettera inviatami da Giuseppe Richebuono (esimio studioso di storia ampezzana e ladina, appassionato alpinista e camminatore) a rettifica di una notizia riportata nel settembre 1995 dal periodico “La Usc di Ladins”, ho appreso un interessante episodio, con cui ho ricostruito le vicende di quel simbolo.
Sapevo da tempo, avendolo visto negli a rchivi della Sezione del CAI di Cortina, che l’ultimo libro di vetta sulla Costa (firmato, tra i tanti, anche dal grande triestino Enzo Cozzolino, salito da solo per la via Merlet pochi giorni prima di morire), terminava nell’estate 1972.
Mi interessano particolarmente la cima e la sua storia, mi sono affezionato alla Costa e m’infastidiva la mancanza di un libretto lassù. Per questo, il 28 settembre 1996 – dopo venticinque anni di oblio – con tre amici ho provveduto a riparare alla mancanza, collocando in una scatola sotto l’ometto di vetta un nuovo quaderno. Ho poi saputo con piacere che un anno più tardi già una trentina di appassionati, quasi tutti ampezzani, vi aveva lasciato la propria firma a ricordo.
Il manufatto era sorto su interessamento dello stesso Richebuono, allora catechista della nostra Parrocchia, il quale – per celebrare nel modo più consono l’Anno Santo 1950 – ebbe l’idea di erigere sulla Costa (certamente una volta più frequentata di oggi) una grande croce, che si potesse ammirare anche dal fondovalle.
Probabilmente non fu necessario seguire trafile e formalità burocratiche di alcun genere, e dal pensiero all’azione il passo fu breve. I suoi scolari accolsero con gioia la proposta, e così già il 30 giugno l’autonoleggiatore Silvio Bernardi trasportò le varie parti della croce, il cemento, gli utensili e l’acqua necessaria fino alla località “i Casonàte”, nella sottostante Val Padeòn.
Tutto il prezioso materiale venne accuratamente celato tra i mughi alla base delle pareti, per salvaguardarlo dalle intemperie e dalla curiosità umana e animale.
Nell’occasione Richebuono, con Arcangelo Bernardi, Emilio Alverà, Carlo Constantini, Renato Caldara (che tempo fa ha ricordato con piacere a chi scrive di essere salito sulla Costa tre volte solo in quei giorni), Ido Dadié, Camillo Colle, Luigi Da Col e altri compì un sopralluogo sulla cima, depositando parte del materiale.
Il giorno tanto atteso fu fissato per domenica 6 luglio. Di buon mattino quaranta giovani riuscirono, a prezzo di notevoli fatiche e di rischi (oggi decisamente improponibili a un gruppo così numeroso), a trascinare a turno sulla cima della Costa i vari segmenti della croce, costruita di legno e rivestita di alluminio, alta 4 metri, larga due e del peso di circa un quintale.
Per fortuna, nessuno lamentò problemi o incidenti di alcun genere, e la comitiva giunse tranquilla in vetta e festeggiò la posa della croce con gioia e devozione.

Don Alberto Palla, cappellano improvvisatosi muratore, fissò il manufatto al basamento già predisposto, incontrando difficoltà per la mancanza di sabbia, e celebrò la Santa Messa sull’angusta sommità del monte, donde si domina in modo incomparabile la vallata ampezzana distesa 1200 metri più in basso.
Dagli appunti di Richebuono, al quale va riconosciuto il “copyright” della singolare iniziativa (mai più imitata in Ampezzo, a quanto so), si legge che per la solenne benedizione della croce, sulla Costa c’erano: Luciano e Sergio Bernardi; Primo Alverà; Carlo Constantini; Orazio Apollonio (+ 1985); Costanzo, Guido, Roberto, Romeo Ghedina; Alberto (+ 1991), Aldo (+ 1961), Mario, Paolo, Renato Caldara; Pierluigi Polato; Dario e Dino Dandrea; Renato Zangrandi (+ 1971); Bruno (+ 1950) e Giorgio Menardi; Luciano Girardi (+ 1981); Ilario Zardini Lacedelli; Paolo Alberti; Giancarlo Dimai; Franco Majoni; Vigilio Dibetto; Valerio Dandrea; Benito Ferronato; Sergio Vangelista; Walter Affolti; Gianfranco Speranza; Alberto e Bruno Palla e altri che, dopo cinquant’anni, Richebuono non ha più davanti agli occhi.
È merito di alcuni di loro, che ricordano ancora nitidamente i dettagli, se sono riuscito a completare i miei appunti e arricchirli di immagini, le quali dimostrano che il ricordo della posa della croce sulla Costa, episodio di microstoria di un’epoca che non c’è più, non è ancora svanito.
Dopo aver letto le mie prime note sul fatto, da Pierluigi Polato, allora diciassettenne e quindi già “anziano” del gruppo, ho avuto alcune fotografie originali del 1950, gelosamente conservate e qui di seguito riprodotte. Poco dopo un altro dei protagonisti dell’inaugurazione, Dino Dandrea, mi ha raccontato in dettaglio la “seconda puntata” della vita del manufatto che ben pochi, oltre a lui, sapevano.
Ho così appreso che tredici anni dopo la posa, la croce fu improvvisamente atterrata dal vento e dalle intemperie, e da Cortina non si scorse più il luminoso contorno che accompagnava, e accompagna in condizioni favorevoli, la vista sul ramo centrale del Pomagagnòn nelle giornate di sole.
Due ex alunni di Richebuono, i venticinquenni Dino Dandrea e Renato Zangrandi, in una nuvolosa giornata dell’estate 1963 ritornarono sulla Costa con i rispettivi fratelli Aldo e Lorenzo e l’amico Paolo Dallago “Cè”, con gli attrezzi necessari per sistemare nel modo migliore il simbolo del Pomagagnòn. Con un bel po’ di lavoro la croce fu rimessa in piedi, ne fu riassestato il basamento corroso dalle infiltrazioni d’acqua di tanti anni, fu saldato un rinforzo di ferro all’interno dello zoccolo, e nell’occasione si poté cogliere sulla vetta e fermare in un’immagine anche il singolare fenomeno atmosferico della “fata morgana”.
Dopo oltre trent’anni, parlando con chi scrive, Dandrea ha ricordato con soddisfazione l’iniziativa, che ha garantito la conservazione della croce sino ad oggi .
La curiosa avventura dei giovani ampezzani, nel suo piccolo, riveste anch’essa un certo interesse per la storia alpinistica dei nostri monti.
Nella lettera che mi scrisse tempo fa, Richebuono giudicava la sua iniziativa soltanto “una gran matàda” , ma – ricordandola – lanciava un’interessante idea, che ha già trovato un appoggio “morale” nella Sezione del CAI di Cortina e potrebbe essere concretata con l’aiuto di uomini e mezzi da parte di altri organismi competenti (Regole d’Ampezzo, Scoiattoli e Guide).

Si tratterebbe di celebrare nel corso dell’estate 2000, magari proprio col dr. Richebuono, se potesse e volesse essere della partita, il giubileo della croce issata sulla Costa del Bartoldo con tanta fatica da 40 ragazzi ampezzani nel lontano 1950.
La celebrazione riporterebbe agli onori della cronaca un’opera che, per quanto minima, caratterizza in modo particolare una bella montagna d’Ampezzo.
Su di essa oggi sono rarissimi gli appassionati che, lasciati per una volta i sentieri più agevoli e battuti della valle e inoltratisi nel circo tra Costa e Testa, un mondo fatto di mughi, ghiaia e roccia dove tracce umane e segni per fortuna quasi mancano, hanno la fantasia e la voglia di salire alla croce e da lassù respirare il fascino di un ambiente appartato e silenzioso.
Se ve ne fosse l’occasione, al giubileo si potrebbe poi accostare il centenario, che cadrà anch’esso nel luglio 2000, della via normale, o di discesa, dalla Costa.
La cima fu raggiunta con una certa difficoltà, traversando per la rotta cresta che la unisce alla Croda del Pomagagnòn (chissà se qualcuno ha ripetuto integralmente l’itinerario?), durante una fruttuosa campagna esplorativa da tre giovani d’oltralpe che, con la loro attività, contribuirono attivamente a far conoscere e amare le nostre Dolomiti. Dopo un secolo, a chi frequenta la Costa oggi, le loro figure magari potrebbero riapparire all’improvviso…
Articolo tratto da “Le Dolomiti Bellunesi” – Anno XXII – N.42 – Estate 1999
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